Carceri: quando il trattamento è inumano e degradante per la Cassazione

Le condizioni delle carceri italiane sono diventate banco di prova per la criminologia, la sociologia e la politica da ormai molti anni. Dalla famigerata sentenza Torreggiani (adottata l’8 gennaio 2013) l’articolo 3 della CEDU è diventato il punto di riferimento principale per poter interpretare al meglio le condizioni di vita del reo sottoposto a reclusione.
La Corte Suprema, con sentenza datata 10 gennaio 2019 n. 1562 (sotto allegata), ha avuto modo, nuovamente, di tornare in merito alla questione.

La Corte sostiene come il requisito spaziale di tre metri quadri non debba essere visto come un criterio rigido al quale necessariamente conformarsi. L’articolo 3 della CEDU, nonostante sia stato interpretato dalla Corte di Strasburgo proprio a favore dell’opportunità di riconoscere uno spazio minimo individuale, non ritiene quest’ultimo come criterio definitivo per accertare la lesione dei diritti del detenuto.

In mancanza di un tale spazio verrà a formarsi una presunzione di trattamento inumano o degradante, che sarà confutabile tramite criteri altrettanto validi in grado di compensare la sua mancanza, come, ad esempio: «il grado di libertà di circolazione del ristretto e l’offerta di attività all’esterno della cella nonché le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti».

Nel caso in esame, secondo la VI Sezione, la Corte di appello non ha fatto un buon uso delle linee guida sopra citate.

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