LA LEGGE GELLI-BIANCO E IL PRIMO VAGLIO DELLA CASSAZIONE: LINEE GUIDA SÌ, MA CON GIUDIZIO

Nota a Cass. pen., Sez. IV, sent. 20 aprile 2017 (dep. 7 giugno 2017), n. 28187, Pres. Blaiotta, Rel. Blaiotta – Montagni

 

1. Il dibattito sul nuovo statuto penale della colpa medica delineato dalla legge Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n. 24), da subito oggetto di attenta riflessione da parte della dottrina, si arricchisce del contributo interpretativo della Cassazione, atteso con impazienza sin dalla preliminare diffusione, nello scorso mese di aprile, della relativa ‘notizia di decisione’ (la n. 3 del 2017), con annesso comunicato esplicativo.

L’attesa non è stata vana e i giudici della IV Sezione offrono oggi, attraverso una pronuncia ampiamente motivata e attentamente calibrata (addirittura ‘a doppia firma’), un contributo chiarificatore su taluni nodi dogmatici ‘oscuri’ della rinnovata colpa medica, risolvendo i primi problemi di diritto intertemporale inevitabilmente innescati dalla novella.

 

2. L’occasione è offerta da un classico caso di responsabilità colposa di un medico psichiatra, dirigente di un centro di salute mentale, per atti etero-aggressivi, risalenti al gennaio del 2014, di un paziente nei confronti di altro malato inserito nella medesima struttura residenziale.

Dopo avere richiamato in alcuni passaggi preliminari le specifiche vicende processuali e le peculiarità che da sempre accompagnano, in termini generali, l’accertamento della responsabilità colposa degli operatori psichiatrici, a partire dall’esatta delimitazione del perimetro della posizione di garanzia e del contenuto dei conseguenti obblighi (§§. 3 e 4), la riflessione della Cassazione si focalizza sul rilievo assunto, nel caso di specie, dalla verifica del rispetto, da parte dell’imputato, “di eventuali codificate procedure formali ovvero di protocolli o linee guida, (…) parametri che possono svolgere un ruolo importante, quale atto di indirizzo per il medico e quindi nel momento della verifica giudiziale della correttezza del suo operato” (§. 5).

In questa prospettiva, ampio spazio è dedicato all’accurata ricostruzione del cammino giurisprudenziale degli ultimi anni, che va dall’approccio indulgente verso la classe medica, prevalente negli anni ’70 e in qualche misura avallato dalla stessa Corte costituzionale – che nel 1973 aveva escluso la violazione del principio di eguaglianza nella possibile applicazione in sede penale dell’art. 2236 c.c., riferendone l’operatività ai soli casi in cui la prestazione professionale comportasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, contenuta quindi nel circoscritto terreno della perizia- a quello, più rigoroso, che escludeva l’applicabilità della norma civilistica in materia penale, relegando il grado della colpa a mero criterio di commisurazione della pena ex art. 133 c.p., sino all’art. 3 co. 1 della legge 189 del 2012, in base al quale, nella lettura fornita dalla giurisprudenza, il terapeuta complessivamente avveduto e informato, attento alle raccomandazioni contenute nelle linee guida, poteva ritenersi rimproverabile solo nel caso in cui fosse incorso in colpa grave nell’adeguarsi a tali direttive (§. 6).

Il percorso culmina nella nuova considerazione da riservare oggi alla questione, a seguito della legge n. 24 del 2017 e del nuovo art 590–sexies c.p., a tenore del quale la punibilità è esclusa, senza alcun riferimento testuale al fatto che si versi in colpa grave o lieve, qualora, nell’esercizio della professione sanitaria: a) l’evento si sia verificato a causa di imperiziab) siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge (all’art. 5), ovvero, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali (le quali, dunque, rispetto alla legge Balduzzi assumono una posizione suppletiva nei confronti delle linee guida); c) le raccomandazioni contenute nelle linee guida predette risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

 

3. Approfondendo i contorni applicativi della fattispecie, i giudici colgono una marcata “incompatibilità logica” nel riferimento all’esclusione della punibilità nelle sole ipotesi in cui l’evento si sia verificato a causa di imperizia, sottolineando come, a stretto rigore, “si è in colpa per imperizia ed al contempo non lo si è, visto che le codificate leges artis sono state rispettate ed applicate in modo pertinente ed appropriato (…) all’esito di un giudizio maturato alla stregua di tutte le contingenze fattuali rilevanti in ciascuna fattispecie” (§. 7).

Per uscire dall’impasse, una prima possibile soluzione potrebbe essere quella di un’interpretazione letterale della fattispecie, che porta a escludere la punibilità “anche nei confronti del sanitario che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di comportamento rimproverabile per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate; pure quando esse siano estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata”; esempio paradigmatico quello di un chirurgo che “imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale” (§. 7).

Senonché, secondo la Cassazione, una soluzione siffatta, oltre che vulnerare il diritto alla salute (art. 32 Cost.) e palesare seri dubbi di legittimità costituzionale, si pone in contrasto con i principi che governano la responsabilità penale, a partire da quello di colpevolezza, declinato nelle ineludibili coordinate dell’accertamento colposo (prevedibilità ed evitabilità dell’evento e causalità della colpa) che non consentono “l’utilizzazione di direttive non pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, non solo per affermare la responsabilità colpevole, ma neppure per escluderla” (§. 7.1).

 

4. Dal momento che nel contesto della responsabilità medica le direttive assumono le vesti di linee guida, è inevitabile, per i giudici di legittimità, tornare a soffermarsi ancora – sulla scia di precedenti elaborazioni maturate con riferimento alla legge Balduzzi – su naturacontenuto e limiti delle linee guida. Rispondendo a fondamentali istanze di determinatezza della fattispecie colposa, esse mantengono un “contenuto orientativo, esprimono raccomandazioni” e “non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico” (§. 7.2.).

Ancora, e soprattutto, esse “non esauriscono la disciplina dell’ars medica”, giacché, “da un lato, vi sono aspetti della medicina che non sono per nulla regolati da tale genere di direttiva” e, dall’altro, “pure nell’ambito di contesti che ad esse attingono, può ben accadere che si tratti di compiere gesti o di agire condotte, assumere decisioni che le direttive in questione non prendono in considerazione”. In queste situazioni, dunque, “la considerazione della generica osservanza delle linee guida costituisce (…) un aspetto irrilevante ai fini della spiegazione dell’evento e della razionale analisi della condotta ai fini del giudizio di rimproverabilità colposa”, precludendo, in ultima istanza, la possibilità che si possa “concedere, sempre e comunque, l’impunità a chi si trovi in una situazione di verificata colpa per imperizia” (§. 7.2).

 

5. Come accennato, l’interpretazione letterale prospettata, “implicando un radicale esonero da responsabilità”, rischierebbe di compromettere – anche sul versante civilistico, per le ricadute in termini di quantificazione del danno (§. 7.4.) – il diritto alla salute tutelato all’art. 32 Cost., stabilendo peraltro un regime normativo “irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili” (§. 7.3), e fortemente a rischio d’incostituzionalità.

Preso atto dell’impraticabilità di tale soluzione, i giudici tracciano un itinerario alternativo, partendo dalle coordinate normative (in particolare dall’art. 5) e dalle finalità della legge Gelli-Bianco in tema di linee guida. Così, da una parte, si sottolinea, ancora una volta, la loro natura “di direttive di massima, che devono confrontarsi con le peculiarità di ciascuna situazione concreta, adattandovisi” e, dall’altra, si evidenzia “la volontà di costruire un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate”, finalizzato a “superare le incertezze manifestatesi dopo l’introduzione della legge n. 189/2012 a proposito dei criteri per l’individuazione delle direttive scientificamente qualificate” (§. 7.5).

Tutto ciò fa sorgere nel medico, tenuto ad attenersi alle raccomandazioni (sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta), la coerente “pretesa a vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli”; al contempo, contribuisce a chiarire il significato della nuova fattispecie incriminatrice, fornendo “un inedito inquadramento precettivo, focalizzato sulle modalità di svolgimento dell’attività sanitaria e di accertamento della colpa”, che offre al giudice “precise indicazioni in ordine all’esercizio del giudizio di responsabilità” (§. 7.5).

Schematizzando al massimo, dunque, ai fini del nuovo art. 590-sexies:

a) occorrerà riferirsi ad eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida accreditatesulla base di quanto stabilito all’art. 5 ed appropriate rispetto al caso concreto, in assenza di plausibili ragioni che suggeriscano di discostarsene radicalmente (§. 8.1.);

b) le raccomandazioni generali dovranno essere “pertinenti alla fattispecie concreta”, previo vaglio della loro corretta attualizzazione nello sviluppo della relazione terapeutica, con particolare riguardo alle contingenze del caso concreto (8.2);

c) non assumeranno rilevo (c1) condotte che, “sebbene poste in essere nell’ambito di relazione terapeutica governata da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo” (§. 8.3) ovvero (c2) siano connotate da negligenza o imprudenza e non da imperizia (§. 9).

Il discorso è accompagnato dalla consapevolezza che “il catalogo delle linee guida non può esaurire del tutto i parametri di valutazione”, ben potendo il terapeuta “invocare in qualche caso particolare quale metro di giudizio anche raccomandazioni, approdi scientifici che, sebbene non formalizzati nei modi previsti dalla legge, risultino di elevata qualificazione nella comunità scientifica, magari per effetto di studi non ancora recepiti dal sistema normativo di evidenza pubblica delle linee guida di cui al richiamato art. 5” (§. 10). Consapevolezza, del resto, ben presente anche nel legislatore, che, lo si è visto, nell’art. 590-sexies c.p. fa esplicito riferimento, seppure in via sussidiaria, al rispetto delle “buone pratiche clinico-assistenziali”.

Ribadendosi come la lettura proposta sia “l’unica possibile” – in grado di cogliere “il virtuoso impulso innovatore focalizzato sulla selezione e codificazione di raccomandazioni volte a regolare in modo aggiornato, uniforme, affidabile, l’esercizio dell’ars medica” e, al contempo, di “ancorare il giudizio di responsabilità penale e civile a costituti regolativi precostituiti, con indubbi vantaggi in termini di determinatezza delle regole e prevedibilità dei giudizi” (§. 10.1) – si precisa infine come essa non sia messa in discussione dal riferimento testuale all’osservanza delle linee guida quale “causa di esclusione della punibilità”; si ricorda anzi – attraverso un puntuale richiamo esemplificativo agli articoli 85 e 388 c.p. – come nel codice penale (e nella legislazione complementare) la medesima espressione sia riscontrabile “con significati diversi e non di rado atecnici, cioè non riconducibili alla sfera dell’esclusione della pena pur in presenza di un reato, per ragioni istituzionali, personali, di opportunità”. E proprio nel caso della responsabilità medica “l’evocazione della punibilità va intesa come un atecnico riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa” (§. 10.1).

 

6. Prima di affrontare i profili intertemporali, la Cassazione compendia gli approdi interpretativi. In sintesi, la nuova disciplina non troverà applicazione:

i) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida;

ii) nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate;

iii) in relazione a quelle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo.

Per dipanare i problemi di diritto intertemporale, è necessario individuare, nonostante la formale abrogazione della precedente normativa, la legge in concreto più favorevole rispetto ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 (1 aprile 2017). Orbene, da un raffronto strutturale, la legge Balduzzi – nell’elaborazione maturata nei pochi anni di vigenza – si presenta in termini senza dubbio di maggiore favorerispetto al nuovo articolo 590-sexies c.p., quantomeno riguardo alla limitazione di responsabilità ai soli casi di colpa grave; di talché, la precedente disciplina, ove pertinente, troverà ancora applicazione, ex art. 2, c.p., rispetto ai fatti anteriori (§. 11), quale norma più favorevole.

8. Rinviando a un prossimo lavoro per un più disteso commento, la prima impressione che la lettura delle motivazioni suscita è senza dubbio positiva.

Colti gli aspetti critici dell’innovazione legislativa, i giudici si sforzano di delineare, in un’opera di preziosa ricomposizione del quadro, un percorso interpretativo in grado, da un lato, di sciogliere il rebus applicativo racchiuso nell’infelice formulazione dell’art. 590-sexies c.p. e, dall’altro, di ‘salvare’ la nuova fattispecie dai dubbi di legittimità costituzionale alimentati, sotto vari profili, da una interpretazione letterale.

Rimangono tuttavia aperti taluni fronti problematici, con i quali, inevitabilmente, la stessa giurisprudenza dovrà, primo o poi, fare i conti.

In particolare:

– non riconoscendosi alcuna presunzione assoluta d’irresponsabilità connessa all’applicazione delle linee guida, residua, per il giudice, un’ampia finestra discrezionale in ordine all’adeguatezza delle linee guida rispetto al caso concreto: il fulcro della punibilità, ancor più che in passato, finisce per essere affidato a una valutazione giudiziale autonoma, di ‘adeguatezza’ delle raccomandazioni osservate alla specificità del caso concreto, con tutte le relative incertezze e in assenza di un esplicito binario gradualistico della colpa grave (concetto sul quale, fra l’altro, era maturata una convergenza giurisprudenziale);

– pur al cospetto della soppressione del riferimento al discusso grado della colpa, non è affatto certo che, nella sostanza, non sia comunque residuata – sul solo terreno dell’imperizia – un’implicita gradazione: si sia cioè ritagliato uno spazio di punibilità comunque legato a un’imperizia grave, con riferimento alle ipotesi di scelta inadeguata delle raccomandazioni contenute nelle linee guida accreditate ovvero addirittura alla mancata individuazione delle linee guida pertinenti, riservando, di contro, il beneficio della non punibilità alle ipotesi di imperizia non grave, invero residuali, nelle quali l’evento si sia verificato nonostante l’osservanza delle linee guida contenenti raccomandazioni ritenute in astratto adeguate al caso concreto;

– risulta alquanto problematico, anche ai fini della comparazione intertemporale, il riferimento, nell’art. 590-sexiesc.p., al rispetto, in via residuale, delle c.d. buone pratiche clinico-assistenziali, a un parametro cioè che, a prima vista, sembra richiamare a pieno i tradizionali canoni della colpa generica per imperizia, vale a dire le regole cautelari desumibili dalle leges artis cui il medico modello deve attenersi nell’esercizio della sua attività;

– circoscritta la limitazione di responsabilità alle sole condotte rispettose delle linee guida connotate da imperizia, in controtendenza rispetto alle aperture della più recente giurisprudenza di legittimità in relazione ai margini applicativi della legge Balduzzi, è forte il rischio che, in virtù dell’estrema labilità del confine tra le varie ipotesi di colpa, in chiave accusatoria si tendano a trasformare casi di imperizia in imputazioni per negligenza e imprudenza, rispetto alle quali non valgono i profili di esenzione della responsabilità nelle ipotesi di ossequio alle linee guida.

 

9. Una considerazione conclusiva. Tornando alla sentenza, nelle righe finali, per provare a “ricomporre i frammenti della disciplina”, si rievoca l’applicabilità, in ambito penale, dell’art. 2236 c.c., con particolare riferimento a quelle “situazioni tecnico scientifiche nuove, complesse o influenzate e rese più difficoltose dall’urgenza”, che “implicano un diverso e più favorevole metro di valutazione” (§. 11.1.). In queste circostanze, si precisa, il principio civilistico, che assegna rilevanza solo alla colpa grave, può continuare a trovare applicazione come “regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà”. Tale lettura giurisprudenziale, secondo la Cassazione, conserva attualità e “potrà orientare il giudizio in una guisa che tenga conto delle riconosciute peculiarità delle professioni sanitarie” (§. 11.1).

Provando a dare concretezza all’assunto, va ribadito che ancora oggi, a seguito dell’intervento del legislatore del 2017 e facendo tesoro delle indicazioni dell’ultima giurisprudenza, l’osservanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida non basta, in termini generali, a rendere lecita una prassi medica e ad escludere ogni possibile addebito per colpa, a fronte dell’esigenza di fare i conti col caso concreto, indagando l’attendibilità e la rispondenza di tali fonti pre-date alle esigenze della specifica situazione patologica da fronteggiare. Proprio in ciò, in fondo, risiede il giudizio di adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida accreditate rispetto al caso concreto; requisito, espressamente richiamato dall’art. 590-sexies c.p., che non potrà prescindere dal ricorso all’armamentario per l’accertamento della colpa generica.

Ebbene, in questa prospettiva si può inquadrare anche l’esigenza di valorizzare quei contesti appena richiamati che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione ‘benevola’ del comportamento del sanitario. Se pure è innegabile che, in situazioni di particolare impellenza, il ricorso a linee guida già pronte possa essere di ausilio al sanitario chiamato ad intervenire, è altresì inevitabile che la medesima condizione emergenziale possa incidere sulla capacità di valutazione dell’adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida rispetto alle peculiarità del caso concreto.

Si tratta indubbiamente di un passaggio logico significativo, che torna a misurare la colpa medica sul ‘contesto’, al quale va assegnato un ruolo, su un diverso piano, anche nell’interpretazione della nuova normativa. Si apre la via a ri-considerare le ragioni di contesto/emergenza quale parametro di misurazione (anche) oggettiva della colpa, sul fronte della valutazione della perizia del medico nel caso concreto oggetto di giudizio, ma anche su quello, altrettanto cruciale e collegato, del giudizio di rispondenza delle fonti pre-date alle peculiarità del caso concreto.

Ci sarà modo e tempo per tornare adeguatamente sul punto. È importante, tuttavia, richiamarlo già in questa sede, giacché proprio questa potrebbe essere la strada per superare, in chiave interpretativa, la diffusa sensazione che il legislatore del 2017, nel delineare una presunzione relativa di non punibilità, abbia non solo schiuso nuovi e non meno rilevanti fronti problematici rispetto alla precedente disciplina, ma anche – e soprattutto – fallito lo scopo di garantire più certezze di irresponsabilità, arretrando rispetto alle più recenti acquisizioni della giurisprudenza di legittimità maturate con riguardo alla legge Balduzzi, in termini di garanzia della classe medica e conseguentemente di effettiva e piena attuazione del diritto alla salute e di contrasto alla medicina difensiva.

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